Negli ultimi tempi ci siamo confrontati sulla durata, l’estensione geografica e le prospettive della ripresa economica che sta interessando le principali economie mondiali.
Un’evoluzione economica di questo tipo, con i suoi effetti registrati da molte misurazioni, tra le quali il sempre rilevante il tasso di occupazione, avrebbe dovuto da qualche tempo tradursi, se non in un maggiore tasso di inflazione, almeno in qualche segnale attendibile della sua ripresa. Ma ad oggi ancora niente sull’orizzonte, come correttamente osservato dalle Banche Centrali e dagli analisti e come confermato dal comportamento dei mercati, soprattutto quello dei tassi di interesse.
Anche la BRI, nel suo comunicato stampa di settembre, conferma quanto ormai universalmente noto. E deriva da questa sintesi la spiegazione più razionale del comportamento dei mercati finanziari in generale: la bassa inflazione attuale e attesa, le economie in ripresa e i tassi abbastanza stabili convivono necessariamente con mercati finanziari che gradiscono una maggiore assunzione di rischio.
A questo punto non sappiamo quale argomento manca ancora nella comprensione dello scenario economico e finanziario che si sta sviluppando e che mostra avere la forza per continuare.
Importantissimo per gli investitori rimane, come sempre, capire le ragioni di breve termine e quelle di lungo termine a sostegno del comportamento dei mercati finanziari e a spiegazione di quanto attendibile per il loro futuro.
Di recente abbiamo anche accennato alle ragioni di lungo termine, soprattutto quando abbiamo affrontato il tema dell’attendibilità delle attuali misure di produttività sistemiche, per le quali iniziano ad emergere dei dubbi, che potrebbero spiegare almeno una parte della mancata inflazione. Le ragioni di breve termine sono sempre le stesse, riassumibili in grande sintesi nel posizionamento dei principali attori di mercato.
I mercati finanziari sono popolati da attori di diverso tipo: i “real money” (fondi pensione, compagnie di assicurazioni, fondi sovrani, fondazioni, operatori che godono di disponibilità finanziare a lungo termine), le banche (la disponibilità di capitali di questi attori è nominalmente più legata a orizzonti temporali brevi essendo spesso finanziata da raccolta a più breve termine), e gli operatori finanziari maggiormente speculativi, spesso attivi su orizzonti temporali ridotti, principalmente finanziati a breve termine (non diversi in questo dalla banche, spesso sono raggruppati sotto il nome di investitori alternativi).
A seguito di innovazioni normative e per effetto del perdurare dei bassi tassi di interesse, il primo tipo di operatore, le assicurazioni, ancora di più quando vincolato a contratti di raccolta del tipo “defined benefit” (a prestazioni definite: nel caso delle polizze vita, i contratti tradizionali con garanzie di risultato finanziario minimo in Italia) è stato fortemente spinto all’abbandono di posizioni di rischio attivo sul portafoglio: l’onere della promessa contrattuale fatta, in condizioni di tassi di interessi ridotti, aumenta di costo e riduce fino allo zero la parte di attivi destinabile agli investimenti rischiosi. Il secondo tipo di operatore, le banche, ha subito innovazioni regolatorie analoghe e a volte anche più restrittive rispetto alle assicurazioni: si pensi solo alla separazione delle attività di investment banking rispetto a quelle di banca ordinaria, per non parlare dei più stretti requisiti di patrimonializzazione. Il terzo tipo di operatore si è dimensionalmente ridotto, da un lato per i risultati insoddisfacenti prodotti nell’ultimo decennio, dall’altro per la minore disponibilità di capitali speculativi da parte dei loro tradizionali clienti (si tratta di un effetto regolamentare indotto).
Guardando solo ai punti soprastanti, dovremmo arrivare a ipotizzare un posizionamento di mercato non eccessivo, e non indicatore di prossimità di crisi.
Alcuni dati raccolti dalla BIS mostrano un posizionamento più aggressivo rispetto a quello appena riassunto:
– nella prima metà del 2017 le consistenze in essere dei titoli emessi dalle banche hanno registrato l’incremento più rapido degli ultimi sei anni (venivamo comunque dai peggiori sei anni negli ultimi quasi 100)
– l’indebitamento attuale delle amministrazioni dei paesi emergenti appare raddoppiato dal 2007 ad oggi (il solo debito pubblico è passato dal 41% al 51% del loro PIL). L’indebitamento dei paesi emergenti però è a durata maggiore rispetto al passato, è a tasso fisso e in valuta locale: si tratta di una situazione totalmente diversa da quella delle crisi precedenti, molto più stabile e molto più simile alla struttura finanziaria delle economie sviluppate.
In sintesi, considerando anche i caveat recentemente espressi dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, ed esclusi fattori di rischio esogeni, non troviamo ancora le ragioni di viva preoccupazione espresse da molti analisti e gestori (probabilmente “ex”) che, nel loro nuovo ruolo di tele-predicatori dai sipari più disparati (Alpi Svizzere, laghi Italiani, …), non fanno che sostenere ormai da dieci anni il loro pessimismo. Ci viene da domandarci come si comporterebbero, all’atto pratico, se dovessero vivere delle commissioni generate dai rendimenti delle loro gestioni.