Il 2022 è stato l’anno in cui Covid, vaccini e “riapertura” delle economie hanno smesso di dominare la scena dei mercati finanziari. E l’anno in cui la domanda di beni e servizi rimasta insoddisfatta nel 2020 e 2021 si è riversata nell’economia reale, innescando un significativo aumento dei prezzi che ha portato l’attenzione degli investitori di tutto il mondo sul tema dell’inflazione. Il tema era già emerso nel 2021, ma è stato esasperato nel 2022 dalle tensioni sul fronte della domanda (che si è rivelata superiore all’offerta sia per i beni sia per i servizi) e su quello dell’offerta, in particolare per le difficoltà di approvvigionamento e per lo shock nei costi dell’energia, che hanno impattato negativamente ogni tipo di attività ed i prezzi di qualsiasi cosa. L’inflazione ha preoccupato le banche centrali di tutto il mondo, inducendole (in ritardo rispetto a quanto avrebbero dovuto) a una restrizione delle politiche monetarie che non ha precedenti negli ultimi quarant’anni, sia nelle economie sviluppate, USA in particolare, sia in quelle emergenti.
Il 2022 è stato anche l’anno in cui, in seguito all’invasione dell’Ucraina, le sanzioni alla Russia e l’aumento dei prezzi delle materie prime hanno evidenziato un chiaro legame tra “geopolitica” ed economia reale, affiancando al tema dell’inflazione quello del rallentamento economico con rischio di recessione, e facendo emergere, soprattutto in Europa, uno scenario di “stagflazione”, in cui l’aumento dei prezzi “di tutto” si è affiancato ad una economia in contrazione.
In questo scenario, con tassi di interessi in rialzo per contrastare l’inflazione che hanno avuto effetti negativi sulla crescita economica, e con dollaro in continuo rafforzamento, tutti i tipi di attività finanziarie hanno registrato rendimenti negativi, con l’eccezione del settore energetico (azioni e materie prime) e delle azioni latino-americane. Le azioni hanno risentito della contrazione degli utili aziendali e dell’aumento dei tassi di interesse nei modelli di valutazione. I prezzi delle obbligazioni sono scesi fino al raggiungimento, per i singoli titoli e scadenze, dei rendimenti di mercato, coerentemente con lo spostamento verso l’alto delle curve e l’allargamento degli spread.
Gli investimenti che generalmente proteggono dall’inflazione non hanno funzionato: le obbligazioni inflation linked hanno perso (poco meno di quelle non legate all’inflazione) a causa del passaggio dei rendimenti reali da negativi a positivi, e delle dinamiche della duration, simili a quella delle altre obbligazioni. L’oro, che comunque si è rivelato uno dei migliori investimenti dell’anno, ha risentito dell’aumento dei rendimenti reali e della marcata riduzione dello stock di obbligazioni con rendimenti negativi. E in generale le materie prime, a parte il movimento di febbraio-marzo in concomitanza con l’inizio della guerra in Ucraina, hanno risentito del rallentamento dell’economia globale e del calo della domanda cinese (lock down e crisi immobiliare).
Dopo anni di politiche monetarie espansive tutte le attività finanziarie hanno dimostrato la fragilità di valutazioni raggiunte a causa dell’effetto distorsivo dell’elevata liquidità presente sui mercati.
In dicembre abbiamo ridotto il profilo di rischio, con una riduzione delle obbligazioni governative (-88%) e delle azioni (-32%, -16% USA, -18% Europa e +2% “globali”). E nelle materie prime, a fronte di una allocazione complessiva invariata, abbiamo azzerato l’esposizione a quelle energetiche (-4%) e agricole (-2%) incrementando il peso dell’oro (+7%).
Nelle obbligazioni abbiamo ridotto la duration del portafoglio da 5,7 a -2 anni. Nelle azioni abbiamo coperto il rischio mercato (+34% l’esposizione “corta”) e aumentato del 2% l’esposizione alla tecnologia con una nuova posizione nel settore dei semiconduttori. Nelle divise abbiamo aumentato il peso di dollari USA (+16%) e aperto una posizione sullo yen contro dollaro (+5%).