In pratica da luglio a metà agosto i mercati finanziari hanno assunto un atteggiamento di “contrasto” all’attività delle banche centrali, FED in primis: la FED lavorava da mesi per rallentare la domanda e ridurre le pressioni sui prezzi, attraverso un peggioramento delle condizioni finanziarie dell’economia, e i suoi sforzi rischiavano di essere vanificati dal miglioramento delle stesse, causato dal rialzo di azioni e obbligazioni, dal restringimento degli spread e da un principio di indebolimento del dollaro. Ma Powell, nel suo discorso del 26 agosto al simposio dei principali banchieri centrali a Jackson Hole, è stato molto chiaro: nelle preoccupazioni della FED l’inflazione viene prima delle condizioni del mercato del lavoro (i due mandati della banca), il contrasto all’inflazione avrà delle conseguenze dolorose (vale a dire il rischio di una recessione) che comunque saranno meno dolorose delle conseguenze che un’inflazione duratura a livelli così elevati potrebbe avere sull’economia e sulle famiglie. Ovvero: nella lotta all’inflazione la banca centrale è disposta ad accettare una crescita reale al disotto del trend ed un aumento della disoccupazione.
È significativo che la reazione dei mercati finanziari al discorso da Jackson Hole, nel giorno del discorso, sia stata la più forte dal 2010, con perdite elevate per tutte le asset class. E che l’ultima settimana di agosto sia stata caratterizzata da perdite marcate per azioni e obbligazioni, con l’ingresso in “bear market” delle obbligazioni per la prima volta da decenni: il Bloomberg Global Aggregate Total Return Index di obbligazioni “investment grade” governative e corporate è in ribasso di oltre il 20% dai massimi del 2021, il maggiore ribasso dal 1990, anno di partenza dell’indice.
Anche la BCE e la Bank of England stanno assumendo un approccio sempre più chiaramente restrittivo e “determinato” nella lotta all’inflazione, che in Europa ha raggiunto i livelli più elevati degli ultimi 40 anni. Ma la credibilità della determinazione della BCE potrebbe venir meno, per il rischio di dovere interrompere il ciclo di rialzi a causa di una recessione indotta dall’aumento dei costi energetici, della perdita di potere d’acquisto delle famiglie e del possibile aumento delle tensioni sul debito periferico, quello italiano in primis.
In questo scenario abbiamo ridotto progressivamente il profilo di rischio del portafoglio.Abbiamo ridotto l’esposizione netta alle azioni (-49%) con riduzione della componente lunga (-24%) e aumento di quella corta (-25%), riducendo le posizioni in USA (-27%) ed in Europa (-23%). Abbiamo aumentato l’esposizione al settore finanziario (+8%), a utilities e comunicazioni (+4% ognuno) e consumer staples (+3,5%), riducendo real estate (-4%), information technology, energetici e consumer discretionary (-5% ognuno). Nelle materie prime abbiamo ridotto l’esposizione all’oro (-3%) e aperto due nuove posizioni su petrolio (+4%) e commodities agricole (+2%). Nelle obbligazioni abbiamo chiuso le posizioni sui governativi decennali tedeschi e statunitensi (-10% ognuna) riportando la duration del portafoglio obbligazionario a due anni e la duration complessiva del fondo a poco più di due mesi. Nelle divise abbiamo aumentato l’esposizione a euro (+11%) e sterline (+7%) a fronte di vendite di dollaro usa (-4%), dollaro australiano e corona norvegese (-7% ognuna).