L’attenzione degli investitori continua ad essere focalizzata sui temi di inflazione e recessione. Il contesto inflattivo è in miglioramento e sembra aumentare la convinzione che i picchi, per questo ciclo, siano stati raggiunti tra maggio e ottobre 2022, anche se la componente “core” resta elevata e a livelli che continuano a preoccupare le Banche Centrali. L’arrivo di una recessione, per quanto moderata, è segnalato ormai da mesi dall’inversione delle curve dei rendimenti, dalla contrazione degli indici manifatturieri e degli indicatori di produzione, dalla contrazione della domanda di beni durevoli, dal rallentamento del settore delle costruzioni e dall’indebolimento dei classici “leading indicators”.
Le banche americane ed europee stanno restringendo gli standard creditizi e contribuiscono ad accentuare il rallentamento in corso, in un processo in atto da tempo ma che è stato accelerato dalle recenti tensioni del settore creditizio, e potrebbe rivelarsi il fattore determinante della prossima recessione. Il rischio è che una riduzione eccessiva dell’erogazione di credito all’economia esasperi gli effetti delle politiche monetarie, rendendole ulteriormente restrittive e con effetti non immaginati dai banchieri centrali all’inizio del ciclo di rialzo dei tassi. Questo rischio è mitigato dal fatto che il miglioramento del contesto inflattivo potrebbe lasciare alle autorità monetarie maggiore spazio di manovra per contrastare, attraverso una nuova fase espansiva, un rallentamento eccessivo o troppo rapido.
È importante evidenziare l’aumento della concentrazione dei pesi all’interno degli indici americani. A fine aprile le prime 2 capitalizzazioni dell’S&P 500 (Apple e Microsoft) rappresentavano il 13.5% dell’indice, le prime 10 il 29%, le prime 50 il 64% e le altre 450 solo il 36%. Microsoft ed Apple spiegavano il 40% della performance dell’ S&P500 da inizio anno, Nvidia e Meta un altro 20%, Amazon, Tesla, Alphabet, AMD e Netflix un altro 20%. Ovvero: 9 aziende, con capitalizzazione aggregata pari al 25% del totale, si sono apprezzate del 39% da inizio anno e spiegano l’80% della performance dell’indice principale. E le altre 491, con una capitalizzazione pari al 75% del totale, si sono apprezzate poco più del 2,2%, e spiegano solo il 20% del risultato dell’indice. Vale a dire: senza le mega capitalizzazioni l’S&P500 avrebbe realizzato una performance poco superiore allo zero nei primi quattro mesi dell’anno. Inoltre: solo il 32% delle azioni americane sta battendo l’indice da inizio anno. Si tratta di una “polarizzazione” mai riscontrata negli ultimi 25 anni. Conclusione: l’andamento degli indici americani, ovvero della maggior componente del MSCI World, non sta rappresentando chiaramente le dinamiche aziendali e dei mercati azionari degli ultimi mesi.
Nell’attività di investimento continuiamo a guardare principalmente ai fattori “margini e utili aziendali” e tassi di interesse, con l’idea di ridurre progressivamente la ciclicità del portafoglio. Quello azionario è composto da società che presentano stime di utili 2023 e 2024 stabili o in aumento. Quello obbligazionario da titoli governativi e corporate con scadenze al massimo nel 2026, con un approccio prudente alla duration e posizioni solo “tattiche” su governativi decennali. E nelle divise manteniamo una limitata diversificazione rispetto all’euro. prevalentemente sul dollaro.
In aprile abbiamo aumentato l’esposizione obbligazionaria (+5%) con acquisti nei governativi Investment Grade, aumentando marginalmente la duration del portafoglio obbligazionario (da 2,1 a 2,7 anni).
Abbiamo aumentato l’esposizione alle azioni (+7%) con acquisti in Europa (+6%) ed USA (+1%). A livello settoriale abbiamo aumentato il peso di healthcare (+6%), finanziari (+4%), comunicazioni (+3%) e consumer staples (+1%), a fronte di una riduzione di materiali(-1%) ed information technology (-2%).
Nelle materie prime abbiamo azzerato l’esposizione alla componente industriale (-4%) a fronte di un aumento dell’oro (+4%). Invariata la diversificazione valutaria rispetto all’euro.